LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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PERCHÉ LA RUSSIA NON È SOCIALISTA?


Content:

Perché la Russia non è socialista?[1]
1. Il capitalismo russo
2. Economia russa e rivoluzione d’ottobre
3. Isolamento e sconfitta del proletariato russo
4. La controrivoluzione staliniana
5. Socialismo e capitalismo di stato
6. Socialismo e piccola produzione
7. Il falso socialismo dei colchos
8. Tutte le tare di una agricoltura capitalistica
9. La realtà del capitalismo russo
Notes
Source


Perché la Russia non è socialista?

1. Il capitalismo russo

Benché l’operaio, letteralmente avvelenato dal riformismo nazionalista, non volga più i suoi sguardi al «paradiso sovietico», la questione di sapere se la Russia attuale meriti o no l’aggettivo qualificativo «socialista», non ha perduto nulla della sua importanza. Se il proletariato europeo, nel corso degli ultimi cinquant’anni, ha subito passivamente i peggiori metodi dello sfruttamento capitalistico (salari legati al rendimento, lavoro a cottimo, produttivismo, ecc.), è in gran parte perché i suoi capi, ciecamente devoti al Cremlino, ne celebravano l’applicazione in Russia come la quintessenza del socialismo. Se un giorno esso riuscirà a levarsi vittoriosamente contro queste forze degradanti dello sfruttamento della forza lavoro, non potrà farlo senza liberarsi dei residui di queste vecchie illusioni, senza convincersi di ciò che è in realtà il regime politico e sociale falsamente battezzato «comunista» in Russia. La ripresa della lotta proletaria internazionale implica il crollo del mito di un’economia russa diversa dall’economia capitalistica occidentale.

Differenziazioni sociali profonde, gerarchia dei salari, privilegi di categorie, divisione del lavoro che condanna gli «operai manuali» all’inferno della fabbrica e riserva agli intellettuali il monopolio del confort, tutte queste caratteristiche cinicamente assunte dalla società russa, sono esse compatibili col socialismo, come hanno la faccia tosta di proclamare gli uomini del P.C.? La Villa per Kossighin e il tugurio per l’operaio; i missili verso la luna e le code davanti al macellaio; l’armamento nucleare e la penuria di grano o carne, sarebbero queste le immagini edificanti della società di domani? A questi interrogativi non basta rispondere: No! La borghesia ha già saputo sfruttare abilmente la delusione di certi lavoratori di fronte alla denunzia della realtà russa: dato che il comunismo non offre nulla di meglio, ha loro detto in sostanza, perché non accontentarvi del buon vecchio capitalismo democratico? Linguaggio che, nei difensori delle «vie nuove al socialismo», è solo un tantino diverso, e suona: ogni popolo avrà il suo socialismo, che terrà conto delle sue tradizioni, del suo «grado di civiltà»!

Se noi, marxisti rivoluzionari, smascheriamo il falso comunismo russo, non è per disgustare gli operai dalla verità. A noi spetta quindi dimostrare tutt’altro, che cioè le tare dell’attuale società russa sono comuni a tutti i regimi politici e sociali esistenti, perché tutti – Russia compresa sono capitalisti.

Pronunciarsi a questo proposito sulla Russia implica la conoscenza delle caratteristiche elementari del socialismo; ma ciò è possibile a sua volta alla sola condizione di sapere prima di tutto che cos’è il capitalismo, appunto quello che ignorano i begli spiriti peroranti su tale soggetto alla radio e alla televisione o in dotte opere «scientifiche». Non si tratta, infatti, di discernere soltanto alcuni aspetti accessori e accidentali di questo modo di produzione, ma di definirne le caratteristiche fondamentali per poterlo riconoscere in tutte le circostanze. Tali caratteristiche si possono riassumere brevemente così: Nella società capitalistica si producono merci; vale a dire, l’essenziale dell’attività umana vi è consacrato alla fabbricazione di oggetti destinati ad essere scambiati contro denaro, venduti. La grande massa dei produttori è privata dei mezzi di produzione (contrariamente all’artigiano o al piccolo contadino che posseggono i loro propri strumenti di lavoro).

Questi produttori, non possedendo che la loro forza lavoro, sono quindi costretti a venderla, ed essa si trova così applicata alle moderne condizioni di produzione: lavoro associato, concentrazione industriale, alta tecnica produttiva. Tutti gli scambi economici, la compravendita delle merci, e soprattutto di quella merce particolare che è la forza lavoro degli operai, si effettuano mediante il denaro.

Il capitale nasce e si sviluppa sulla base dell’utilizzazione com binata di tutti questi fattori. La classe sociale privata dei mezzi di produzione e costretta a vendere la sua forza lavoro è il proletariato. Questa forza lavoro è una merce che ha la «miracolosa proprietà di produrre più ricchezza di quanta ne esiga per il suo sostentamento e la sua riproduzione» (in altre parole, in una giornata lavorativa di 8 ore, l’operaio produrrà, per esempio, in 4 ore il valore del suo salario giornaliero, ma continuerà a lavorarne altre 4 gratis per il capitale).

Il prezzo della forza lavoro costituisce il salario dell’operaio. La differenza fra questo salario e la massa dei valori prodotti rimane proprietà della classe detentrice dei mezzi di produzione, la classe capitalistica; si chiama plusvalore o profitto e, scambiata a sua volta contro nuove forze lavoro e nuovi prodotti del lavoro (macchine, materie prime, ecc.), diventa capitale. Ripetuto all’infinito, questo processo è la accumulazione del capitale.

Tutti questi elementi sono strettamente legati nel modo di produzione capitalista e quindi da esso inseparabili. È dunque una menzogna infame pretendere che una società meriti il nome di socialista quando nel suo seno esistono il denaro scambiabile contro forza lavoro e il salario grazie al quale gli operai si procurano i prodotti necessari al sostentamento proprio e delle loro famiglie, mentre l’accumulazione di valori resta proprietà delle imprese o dello Stato. Ora, tale è appunto oggi la società russa.

In URSS, coi rubli che la Banca di Stato presta, un gruppo di individui può comprare forza lavoro e trattenere nei suoi con fronti la differenza fra il valore prodotto e l’ammontare dei salari versati, come avviene per le effimere imprese anonime che prendono in appalto la costruzione di case e edifici pubblici, o per i colchos che retribuiscono in denaro la categoria salariale dei trattoristi o dei lavoratori stagionali, o, da qualche anno, per gli stessi colchos che il potere impegna ad erigere fabbriche di conserve ed altre industrie di trasformazione utilizzando da una parte il loro profitto di intrapresa, dall’altra il sistema di retribuzione salariale della manodopera assunta. Così avviene, infine, per le stesse aziende statali, che pagano gli operai in denaro, incoraggiano e sviluppano la gerarchia dei salari in funzione della qualificazione della forza lavoro, e investono, cioè trasformano in capitale, il profitto realizzato.

In Russia l’operaio paga in denaro la totalità delle derrate e dei prodotti che gli sono necessari, subisce impotente le fluttuazioni del mercato e perfino la speculazione alla quale si dedicano i produttori individuali, cioè i colchosiani, che, oltre alla loro parte del reddito globale del colchos, posseggono bestiame e campo personali, e ne vendono liberamente, al prezzo che possono ricavarne, i prodotti.

In URSS, infine, il denaro frutta interesse, sia nella forma dei prestiti emessi dallo Stato e che, proprio come nei paesi classici del capitalismo, danno un utile ai possessori di titoli, sia nella forma dell’interesse che lo Stato preleva sulle somme prestate alle proprie imprese.

Che c’è, qui, di diverso dalle società borghesi dell’Occidente capitalista? In URSS, tutto funziona sotto il segno del valore che nella società moderna è la sola fonte del profitto, del capitale, dell’accumulazione, dello sfruttamento della forza lavoro. In Russia, tutto è scambiabile contro questo maledetto denaro, tutto è in vendita, i servizi delle prostitute come quelli degli intellettuali, la cui missione è di cantar le lodi del «socialismo» nazionale e, in genere, di leccare i piedi ai potenti.

In una successiva occasione spiegheremo perché un simile mondo di affaristi, di ruffiani e parassiti, si sia potuto costruire, a prezzo del sangue e del sudore del proletariato russo, sulle rovine della gloriosa rivoluzione d’Ottobre.

Basti per ora sottolineare questo fatto essenziale: il socialismo è incompatibile con le categorie dell’economia capitalistica: il denaro, il salario, l’accumulazione, la divisione del lavoro.

2. Economia russa e rivoluzione d’ottobre

Se le categorie fondamentali dell’economia capitalista, come abbiamo visto nel capitolo scorso, si ritrovano integralmente nella Russia attuale, se perciò questa economia non può senza impostura essere chiamata «socialista», è per la buona ragione che non lo è mai stata, nemmeno ai tempi migliori della rivoluzione di Lenin. Questa rivoluzione fu un passo colossale in direzione del socialismo, ma un passo essenzialmente politico, non economico e sociale, come vedremo più oltre.

Le prime misure che il proletariato giunto al potere in un paese sviluppato deve prendere tendono ad eliminare il carattere capitalista dell’economia. Nella società borghese, la merce essenziale, quella che è l’origine e la base dell’accumulazione del capitale, è la merce forza lavoro, il prezzo della quale sul mercato della manodopera si esprime nel salario, o equivalente in denaro dei prodotti necessari al sostentamento dell’operaio. Anche quando la forza lavoro è pagata al suo giusto valore, cioè permette al salariato di provvedere ai bisogni suoi e della sua famiglia, l’impresa capitalistica ricava sempre un eccedente dalla vendita dei suoi prodotti: il plusvalore o profitto, fonte inesauribile di capitale, motore dell’accumulazione, fondamento economico della potenza sociale della classe capitalistica.

Ricordato tutto ciò, è chiaro che, per distruggere lo sfruttamento capitalistico, occorre distruggere il rapporto fondamentale che ne costituisce la base; occorre distruggere il carattere di merce della forza lavoro. Ciò è possibile ad una sola condizione: che sia abolita la forma di retribuzione chiamata salario. Il mezzo previsto dal marxismo per raggiungere in un primo tempo questo risultato è il sistema dei «buoni di lavoro», di cui parleremo più a lungo in seguito.

Abbiamo già detto a questo proposito che tale sistema, mal grado i sarcasmi dei filistei «moderni», non era affatto utopista. Tuttavia, all’esame della descrizione che ne dà Marx, appare subito che esso non è realizzabile se non in paesi che abbiano raggiunto un certo stadio di sviluppo economico e tecnico. Non era questo il caso della Russia proletaria nell’Ottobre 1917: da una parte, per la arretratezza economica del paese; dall’altra, a causa delle distruzioni provocate dalla guerra civile contro i bianchi e dalla lotta contro l’intervento straniero.

Non solo il potere rivoluzionario bolscevico non poteva affrontare subito il compito economico fondamentale della rivoluzione socialista cioè abolire i rapporti di produzione capitalistici – ma, anche solo per potervi riuscire un giorno, doveva prima svilupparli. Il proletariato russo aveva conquistato il potere sull’onda di una rivoluzione borghese che la borghesia russa era stata incapace di condurre a termine; per contropartita, reggeva sulle proprie spalle il grave fardello del compito che storicamente incombe alla borghesia: l’accumulazione originaria del capitale.

Invece di sopprimere la divisione del lavoro, fondamento del salariato, esso doveva utilizzare nel miglior modo quella che esisteva in Russia. Ben lungi dal far scomparire il mercato, inseparabile dalla retribuzione in denaro della forza lavoro, doveva farlo rivivere. Invece di procedere all’impossibile socializzazione di milioni di aziende agricole era costretto, per l’approvvigionamento delle città, a incoraggiare la piccola produzione contadina. In una parola, doveva correre l’alea di tenere in pugno un potere politico destinato a distruggere l’economia capitalistica, ma spinto per forza di cose ad accellerarne lo sviluppo!

Questa sfida eroica, certi «estremisti» vorrebbero considerarla retrospettivamente – come votata a priori all’insuccesso: un tentativo di potere proletario nella Russia semi-feudale non poteva – essi dicono – sfociare in altro che in un capitalismo nazionale! Questo significa ignorare due elementi-chiave: da una parte, la rivoluzione che, nel corso della prima guerra mondiale, maturava comunque in Russia, occasione unica, per il suo proletariato, di approfittare dell’incapacità congenita della borghesia nazionale di compiere la propria rivoluzione, per rovesciare i rapporti di forza sociali su scala mondiale; dall’altra, l’ipotesi, divenuta plausibile dopo l’insurrezione d’Ottobre e là crisi sociale provocata dalle miserie della guerra in Germania, di una rivoluzione operaia in questo ultimo paese: nel qual caso, l’ascesa al potere del proletariato tedesco, alleggerendo i compiti economici dei bolscevichi, avrebbe permesso loro di doppiare il capo dell’accumulazione del capitale, senza rischiare, in una forma o nell’altra, la restaurazione del suo potere politico e della sua forza sociale.

Per Lenin e per tutti i bolscevichi – Stalin compreso, prima che teorizzasse il «socialismo in un paese solo» –, il traguardo della rivoluzione d’Ottobre non era affatto la trasformazione immediata dell’economia russa in senso socialista. Mille testi e discorsi testimoniano, al contrario, che la prospettiva di tutti i comunisti dell’epoca consisteva nel fare del potere dei Soviet una specie di bastione avanzato della lotta rivoluzionaria mondiale. Solo se la rivoluzione avesse guadagnato i paesi più sviluppati d’Europa, nei quali le prime misure fondamentali del socialismo erano immediatamente possibili, se ne sarebbe potuta prevedere la realizzazione progressiva in Russia. Lenin l’ha sottolineato a più riprese con la sua formula: Senza rivoluzione vittoriosa in Germania, nessuna possibilità di socialismo in Russia! Per affrettare questa vittoria, per concentrare in essa tutte le forze del proletariato internazionale, per liberare il potere sovietico dalla palla al piede di una restaurazione della produzione industriale russa, egli era pronto a dare in affitto al capitale straniero le principali imprese! Posizione ben diversa dalla figura di un Lenin patriottico che ci viene propinata oggi! Preoccupazioni lontane le mille miglia da chi ha preteso, dopo di lui, di «fare» del socialismo nel suo paese solo!

La storia non ha risposto alle aspettative di questa generazione di giganti politici: la Comune di Berlino del 1919 schiacciata; le insurrezioni operaie nell’Europa Centrale sconfitte. Furono le disfatte successive della rivoluzione internazionale ad imporre ai bolscevichi una serie di misure di politica economica che non avevano nulla a che vedere col socialismo, ma che lo stalinismo, in seguito, consacrò sotto questa etichetta menzognera. In realtà, si tratti della gestione operaia delle imprese abbandonate dal padrone o del ristabilimento di un certo grado di commercio interno, della pianificazione industriale o della sostituzione della imposta in natura alle requisizioni forzate di grano, tutti questi non erano che espedienti economici, palliativi contro la miseria e la sottoproduzione, provvedimenti di attesa in vista di una ripresa della lotta proletaria mondiale, alla quale tutti i rivoluzionari degni di questo nome non accettarono mai che si po tesse o dovesse rinunziare.

Fu necessario che il riflusso di questa lotta internazionale si risolvesse in disfatta, che fossero massacrati o deportati tutti co loro che, in Russia o altrove, restavano fedeli alle posizioni di Lenin, perché si compiesse la più grande impostura della storia moderna: la consacrazione «socialista» del sistema più arretrato e più barbaro di sfruttamento della forza lavoro.

Nelle condizioni sopra descritte, i bolscevichi erano quindi co stretti ad utilizzare e sviluppare le categorie che il socialismo si propone di abbattere: lavoro salariato, denaro, accumulazione del capitale.

Il socialismo abolisce la gerarchia delle remunerazioni; i bolscevichi dovettero stimolare la produttività del lavoro col metodo degli alti salari. Il socialismo riduce la durata del lavoro; il potere sovietico l’accrebbe. Il socialismo sopprime il denaro e il mercato; i comunisti russi restituirono al commercio interno la sua libertà. Lo Stato proletario dovette accumulare capitale per ricostituire i mezzi di produzione distrutti, e fabbricarne di nuovi. Insomma, il proletariato russo politicamente era al potere; economicamente, si dissanguava per mantenere in vita un paese in secolare ritardo.

Di queste esigenze, di queste contraddizioni, i bolscevichi erano perfettamente coscienti. Sapevano molto bene che fra il proletariato russo e il socialismo non c’era che un legame: l’Internazionale comunista, interamente rivolta alla lotta del proletariato d’Europa e anche d’Asia.

3. Isolamento e sconfitta del proletariato russo

Solo una vittoria proletaria in paesi capitalistici sviluppati poteva aiutare la Russia dei Soviet ad alleviare le miserie e le sofferenze e a sventare i pericoli sociali, che la ricostruzione della sua economia comportava. Lenin non ha mai detto né pensato che si potesse «fare del socialismo» nella Russia arretrata. Egli contava sul trionfo della rivoluzione operaia, prima in Germania e in Europa Centrale; poi in Italia, Francia ed Inghilterra. È da questa rivoluzione e solo da essa, che egli attendeva la possibilità per la Russia futura di fare i primi passi in direzione del socialismo.

Quando Stalin e i suoi complici salirono al potere e decretarono, come per il beneplacito di un sovrano, che il socialismo era possibile nella sola Russia, essi liquidarono di fatto la prospettiva di Lenin e dei bolscevichi, spezzarono l’unico legame che unisse il proletariato russo ad una possibilità di socialismo futuro: il legame del partito russo con la rivoluzione comunista europea.

I rapporti di produzione della Russia di allora, nei limiti in cui avevano superato lo stadio arcaico della piccola produzione e dell’economia naturale, non avevano che fondamenta borghesi. Su queste fondamenta non si potevano sviluppare che strati sociali ostili al socialismo, avidi innanzitutto di consolidare politicamente i loro vantaggi economici. Tali erano specialmente i commercianti e i piccoli capitalisti privati, ai quali la N.E.P. aveva restituito una certa libertà d’azione. Tali erano le enormi masse contadine, divenute rabbiosamente conservatrici dopo che la rivoluzione operaia le aveva provviste di terra.

Se la rivoluzione fosse stata vittoriosa in Germania, il potere sovietico avrebbe potuto limitarsi alle concessioni già fatte al capitalismo privato e al contadiname russo, e controllarne i riflessi sociali. Rinunciare alla rivoluzione europea, come fece Stalin, era invece dar libero corso allo sviluppo dei rapporti capitalistici in Russia, era dare alle classi che ne erano le immediate beneficiarie la supremazia sul proletariato. Questo proletariato, minoranza estrema decimata nella guerra contro i Bianchi e aggiogata a un compito produttivo schiacciante, non aveva, contro gli speculatori del commercio privato e l’avidità dei contadini, altra arma che il bastone dello Stato sovietico. Ma questo Stato non poteva rimanere proletario che nella misura in cui faceva blocco col proletariato internazionale contro gli strati reazionari interni. Decidere che la Russia dovesse fare da sola il «suo» socialismo, era abbandonare il suo proletariato alla enorme pressione delle classi non proletarie, e liberare il capitalismo russo da ogni coercizione e da ogni controllo. Peggio ancora, era trasformare lo Stato sovietico in uno Stato come tutti gli altri, sforzandosi di fare al più presto della Russia una grande nazione borghese.

Questo fu il vero significato della «svolta» di Stalin e della sua formula del «socialismo in un paese solo». Chiamando «socialismo» quello che era puro capitalismo, patteggiando con la massa reazionaria del contadiname russo, perseguitando e massacrando tutti i rivoluzionari rimasti fedeli alla prospettiva di Lenin e agli interessi del proletariato russo e internazionale, Stalin fu l’artefice di una vera controrivoluzione. Pur realizzandola con l’atroce terrore di un despota assoluto, egli non ne fu tuttavia il promotore, ma lo strumento.

Dopo una serie di sconfitte sul piano internazionale come sul piano interno, dopo la repressione delle insurrezioni armate e i catastrofici errori tattici dell’Internazionale come dopo le sommosse contadine e le carestie in Russia, apparve chiaro, verso il 1924, che la rivoluzione comunista in Europa era rinviata a tempo indefinito. A questo punto cominciò per il proletariato russo un terribile corpo a corpo con tutte le altre classi della società.

Queste classi, momentaneamente prese da entusiasmo per la rivoluzione antizarista, non aspiravano più che a godersi la loro conquista al modo borghese, cioè sacrificando la prospettiva rivoluzionaria internazionale alla instaurazione di «buoni rapporti» coi paesi capitalistici. Stalin non fu che il portavoce e il realizzatore di queste aspirazioni.

Quando diciamo «proletariato russo», non intendiamo affatto le masse operaie stesse, esangui dopo tanti sforzi e sacrifici, affitte dalla disoccupazione e dalla carestia, divenute incapaci di spontaneità politica; intendiamo il partito bolscevico, in cui si condensava e si accentrava l’ultima volontà rivoluzionaria di una generazione politica alla quale la storia non rispondeva più. Non si ripeterà mai abbastanza che la situazione economica in Russia alla fine del periodo della guerra civile era terribile, e che tutta la popolazione aveva finito per desiderare, non importa a qual prezzo, il ritorno alla sicurezza, al pane e al lavoro. In ogni periodo di riflusso di una rivoluzione, quella che trionfa non è la coscienza rivoluzionaria, ma la più triviale demagogia: a politicanti senza scrupoli era fin troppo facile, in simili condizioni, far valere agli occhi delle masse affamate la necessità di un compromesso con l’occidente capitalista, e stigmatizzare come iniziativa da avventurieri la strenua volontà della minoranza bolscevica di continuare la «linea di Lenin», cioè la subordinazione di tutta la politica russa alla strategia della rivoluzione comunista internazionale. Un’iniziativa, Stalin – di fronte al quale gli intellettuali progressisti più raffinati d’occidente si inchinarono come prostitute di infimo grado – non lo aveva mai avuta, lasciando ad altri il compito sovrumano e, a lungo lungo termine, impossible conciliare lo sviluppo indispensabile delle basi economiche capitalistiche con il mantenimento del potere proletario.

Era questo che lo rendeva disponibile ai fini della liquidazione delle prospettive e delle ragioni d’essere del bolscevismo.

Questa liquidazione esigeva un bagno di sangue, ma quello che disorienta lo storico quando studia la controrivoluzione russa, è il fatto che essa si sia sviluppata all’interno del partito bolscevico, come se si trattasse, non di un conflitto fra due prospettive storiche diametralmente opposte, ma di inesplicabili rivalità fra capi, o di una sanguinosa lite in famiglia! È questo il «mistero» che spiegheremo nel prossimo capitolo.

4. La controrivoluzione staliniana

Abbiamo mostrato che, in assenza di una vittoria della rivoluzione comunista in Europa, il potere dei Soviet – incapace di promuovere quel «socialismo in un paese solo» impudentemente promesso da Stalin – viveva sotto la minaccia di una sorda offensiva delle classi non proletarie. In Stalin, la pressione reazionaria di queste classi e le loro aspirazioni ad un compromesso col capitalismo mondiale, trovarono un campione tanto più seppe mascherare agli occhi del proletariato il nascente capitalismo russo sotto il nome di socialismo nazionale.

Questa impostura copre uno degli avvenimenti più fraintesi della storia contemporanea. Non soltanto la prospettiva autentica della rivoluzione d’Ottobre resta sepolta sotto mezzo secolo di falsificazioni politiche e dottrinali e, per un buon numero di coloro che riescono a decifrarla, essa rappresenta una tale sfida al ritmo delle trasformazioni storiche, una ambizione a tal punto sovrumana tenuto conto delle condizioni russe da apparire addirittura inverosimile. Non si ripeterà quindi mai abbastanza che la chiave di una soluzione socialista si trovava fuori dalla Russia.

All’interno della Russia, al contrario, il doppio carattere della rivoluzione non poteva mantenersi all’infinito: lo sviluppo economico che la rivoluzione borghese spinta fino in fondo esigeva, non poteva che minare e, a o meno lontana scadenza, annientare la vittoria puramente politica della rivoluzione socialista.

Nella Russia degli anni 1920, in effetti, tutto quello che deriva da esigenze economiche nazionali, tutto quello che esprime gli interessi sociali russi, costituisce un pericolo mortale per il comunismo, tutte le strategie sociali concepibili all’interno del paese racchiudono, secondo i destini alterni della rivoluzione internazionale, lo stesso rischio fatale per il proletariato russo.

Grazie alla distruzione della proprietà fondiaria feudale, la borghesia contadina ha acquistato un’influenza economica e sociale considerevole. Essa accaparra le terre dei contadini poveri affittandole. Essa impiega illegalmente mano d’opera salariata, e arriva perfino a monopolizzare il grano e ad affamare le città. Nell’amministrazione, dove, per forza di cose, decine di migliaia di comunisti sono trasformati in funzionari, si sviluppa un apparato di burocrati cui principio è «l’amministrazione per l’amministrazione», «lo Stato per lo Stato». Nel paese in cui la carestia imperversa, trovare impiego o alloggio diviene un privilegio e, dopo il 1923, difendere una sincera posizione comunista un atto di eroismo.

Perché dopo il 1923? È certo che ciò che chiamiamo controrivoluzione staliniana è il coronamento di un processo che si estende su un arco di molti anni, dei quali è difficile determinare «quello» veramente critico. Il 1923 non è tuttavia un punto di riferimento arbitrario. È l’anno della definitiva sconfitta della rivoluzione in Germania; l’ultima possibilità di una prossima estensione del comunismo in Europa svanisce, e la portata considerevole di questo fatto è cosi ben compresa nel partito russo, che la notizia vi provoca dei suicidi. È anche l’anno in cui la situazione catastrofica della produzione russa è rivelata dalla crisi «delle forbici»: le curve rispettive dei prezzi agricoli e dei prezzi industriali si presentano sotto questa forma nel diagramma presentato da Trotzki al XII Congresso del Partito, e il loro crescente divergere pone un grave problema di orientamento economico e di strategia sociale. Bisogna aiutare d’urgenza l’industria pesante o, al contrario a sue spese, continuare la politica di sgravi fiscali in favore del contadiname? La risposta è lasciata in sospeso, ma la situazione continua ad aggravarsi con 1 250 000 disoccupati.

Sempre nel 1923, Lenin subisce il terzo attacco di arteriosclerosi che l’ucciderà nel gennaio 1924, non senza che abbia prima denunciato, in quello che si può considerare come il suo testamento politico, «le potenti forze che deviano lo Stato sovietico dal suo cammino» e rotto con Stalin, il quale incarna, egli dice, «un apparato che ci è profondamente estraneo e rappresenta un guazzabuglio di sopravvivenze borghesi e zariste». Il 1923 è infine l’anno in cui si ordisce, durante la malattia di Lenin, bisogna dirlo, grazie innanzitutto alla cecità dei «vecchi bolscevichi» manipolati da Stalin – la prima macchinazione contro Trotzki. Contro l’organizzatore dell’Armata rossa sono allora divulgati i primi falsi politici che in seguito si accrebbero fino a diventare il mucchio di immonde calunnie e di accuse grottesche dal quale le attuali canaglie dei partiti neo-staliniani e post-staliniani malgrado tutte le smentite, comprese quelle del già-venerato Chruščëv continuano ancor oggi ad attingere le loro informazioni storiche. I migliori compagni di lotta di Lenin capiranno solo due anni più tardi quale sia il vero nemico della rivoluzione, il «corpo estraneo» nel partito bolscevico che la storia destinava, nel corso dei dieci anni seguenti, ad essere il loro proprio carnefice.

Oggi si può misurare, all’esame dei vani sforzi e delle innumerevoli vicissitudini della opposizione, raggruppata intorno a Trotzki contro la onnipossente cricca di Stalin, quanto fossero deboli e precarie le basi strettamente russe della grandiosa prospettiva di Lenin, dal momento che l’Occidente (che ogni rivoluzione in Russia doveva, secondo Marx, «sollevare») non era in grado di rispondere in forze a quest’appello.

Al milione o quasi di nuovi elementi, generalmente impreparati, introdotti in massa da Stalin nel partito bolscevico per appoggiarvi la sua politica di liquidazione della rivoluzione internazionale, si oppongono, nei momenti cruciali, solo poche centinaia di comunisti autentici e coraggiosi. Una tale sproporzione di forze sarebbe inspiegabile senza riferirsi al dato fondamentale della rivoluzione di Ottobre: al di là dei compiti puramente borghesi di questa rivoluzione, tutta la «nazione russa» – cioè tutte le classi, tranne un proletariato estremamente minoritario – costituisce un vero e proprio ostacolo colossale alla lotta per il socialismo. Questo è il fatto capitale ignora o sottovaluta ogni critico democratico dello stalinismo, il quale oppone, a giusto titolo, l’onestà scientifica di un Lenin alla grossolana brutalità politica di uno Stalin privo di scrupoli, ma non va al di là del semplice fenomenologia di un colossale movimento di forze sociali e storiche: quello del capitalismo russo che, di fronte ad un partito politico concepito per agire in funzione del socialismo, lo considera, a ragione, come il suo ostacolo più immediato, e deve dunque, per aprirsi la strada, spezzarne il nerbo politico, svuotarlo di sostanza sociale.

Non è qui il caso di esporre, neppure sommariamente, le condizioni nelle quali esso vi riuscì. Rimandando il lettore al nostro studio «Bilan d’une révolution», ci limiteremo a tracciarne le grandi linee sul piano politico.

Durante le lotte interne che precedono la vittoria definitiva dello stalinismo nel 1929-30, nessuna delle misure economiche sulle quali si contrappongono le frazioni del partito pretende di liberarsi dal quadro dei rapporti di produzione capitalistici; nessuna ha il diritto di chiamarsi socialista. Nella sua formulazione pittoresca, il problema posto dalla «crisi delle forbici» continua ad aggravarsi con tutte le sue conseguenze economiche e sociali, con tutte le sue influenze sullo stato della produzione industriale e sul rapporto delle forze sociali. La sinistra di Trotzki sostiene il principio di una preliminare industrializzazione, quale condizione di sviluppo del l’agricoltura, e propugna nello stesso tempo l’appoggio al contadino povero. La destra di Bucharin (ma i nomi non sono dati qui se non come punti di riferimento) punta sull’arricchimento del contadino medio e sull’incremento del suo capitale d’esercizio in vista di una successiva confisca. Il centro di Stalin non ha una sua posizione, limitandosi ad attingere a destra e a sinistra quanto più gli conviene per la sua permanenza al timone dello Stato e quindi non appare chiara, in queste polemiche, la vera linea di demarcazione fra rivoluzionari e controrivoluzionari. Il centro staliniano, se può così utilizzare alternativamente questa o quella misura ispirata dalla «sinistra» o dalla «destra», ha in definitiva una sola funzione: salvare e potenziare lo Stato russo la nazione russa; riducendo la doppia rivoluzione alla sua sola faccia antifeudale e dunque capitalista, è sostanzialmente anticomunista.

Fedeli a Lenin, la sinistra e la destra sanno che tutto dipende, in definitiva, dalla rivoluzione internazionale; che si tratta di tener duro finché essa trionfi; e, se si oppongono violentemente, è sull’efficacia rispettiva delle misure che l’una e l’altra propugnano allo scopo. La preoccupazione del centro è affatto diversa; esso ha già rotto con la rivoluzione internazionale e ha quindi, dal punto di vista politico, un solo scopo: abbattere coloro che le sono rimasti fedeli. Il modo in cui Stalin trionfa, in ultima analisi, lo illustra chiaramente. Egli si appoggia prima sulla destra, di cui adotta programma di appoggio ai contadini medi, accusando Trotzki, sotto bordate di ingiurie, di sabotare l’intoccabile alleanza «leninista» del contadiname e del proletariato; poi, di fronte al fallimento di questa politica e preso dal panico per la minaccia dei kulak, elimina la destra trascinando Bucharin nel fango, accusandolo a torto di esprimere gli interessi della borghesia rurale. La manovra riesce così bene che Bucharin, quando tenta per un attimo di riavvicinarsi a Trotzki, non riesce a convincerlo che la destra è marxista mentre il centro non lo è: certi partigiani di Trotzki considereranno perfino come un passo del centro in direzione della sinistra l’assunzione strumentale che Stalin fa delle loro posizioni, per i propri esclusivi interessi.

Beninteso, questa lotta «fisica» è solo l’espressione, al vertice del Partito e dello Stato, dell’offensiva delle forze economiche sotterranee a cui abbiamo prima accennato. Ma essa mostra quale violento rinculo sul piano politico fosse necessario perché queste forze economiche potessero trionfare, mentre sul piano economico non era assolutamente indispensabile procedere nello stesso modo. La soluzione della destra, la soluzione della sinistra, non erano socialiste. La «soluzione Stalin» non lo era a maggior ragione, benché sembrasse ispirarsi, al tempo della «collettivizzazione» forzata, ad una caricatura della posizione di Trotzki. La spiegazione di questo paradosso sta nel fatto che nessuna soluzione russa poteva imporre la realizzazione, sia pure lontana, del comunismo, se la rivoluzione internazionale fosse stata battuta.

Lo sforzo sovrumano di coloro che si sbranavano fra loro sui mezzi per far violenza a questa dura realtà storica nascose loro il nemico comune che un Bucharin identificò forse soltanto nel momento in cui sentì sulla nuca la fredda pistola del boia.

Che il nemico di una rivoluzione sociale possa essere semplicemente una banda di assassini, prova che il carattere socialista dell’Ottobre 1917, se lo si isola dal previsto apporto del proletariato internazionale, si riduce alla volontà di un partito, cioè di un gruppo di uomini, che va d’altronde assottigliandosi sotto il peso degli avvenimenti avversi; e uccidere rivoluzionari è proprio il compito che ad ogni controrivoluzione spetta.

5. Socialismo e capitalismo di stato

Il nostro ultimo capitolo definiva la controrivoluzione staliniana come la svolta decisiva sopravvenuta nella politica internazionale del partito bolscevico quando la prospettiva della rivoluzione mondiale vi fu sacrificata al «socialismo in un solo paese», etichetta menzognera destinata a coprire il libero sviluppo di una economia tendente al capitalismo.
Spiegando questa controrivoluzione con l’influenza congiunta delle difficoltà economiche interne e del riflusso della lotta internazionale del proletariato, sottolineavamo che essa era la conseguenza logica della situazione precaria di un potere proletario costretto a gestire rapporti di produzione borghesi.

A causa dell’estrema complessità di questa tumultuosa fase storica, abbiamo dovuto procedere all’inverso del tradizionale metodo didattico che va dal particolare al generale. Abbiamo dovuto, in una questione di cui nessun aspetto può essere esaminato isolatamente, tentare anzitutto di provare, con un panorama d’insieme, che una relazione stretta ed imperiosa legava problemi economici e politici, strategia sociale all’interno della Russia e ruolo internazionale assegnato dai comunisti alla loro rivoluzione, e, a questo proposito, insistere a lungo sul significato della lotta di frazioni che, dal 1923, si manifestò al vertice del partito bolscevico: non contrapposizione di soluzioni economiche di cui le une sarebbero state socialiste e le altre no, ma divergenze sui diversi modi possibili di conservare il potere in attesa della rivoluzione internazionale. Bisogna ora tornare più in dettaglio su questo punto capitale, per riprendere alla fonte l’evoluzione che ha condotto la economia russa al suo stato attuale.

Dobbiamo ripetere che la politica economica bolscevica è minata, fin dai primi anni della rivoluzione, da una contraddizione che alla lunga le sarà fatale, e che tutti i comunisti di Russia e del mondo – fino alla svolta di Stalin – non sperano di superare se non con la vittoria internazionale del socialismo. Ma in attesa di questa vittoria – che d’altronde diviene problematica –, bisogna pure che la popolazione russa viva, che le forze produttive del paese siano utilizzate al meglio nello stato in cui sono, cioè al livello di un’economia mercantile piccolo borghese. Qual è la formula bolscevica in materia? È l’orientamento di tutti gli sforzi produttivi in direzione del capitalismo di Stato.

Perché «capitalismo»? Lenin lo spiega nel suo testo dell’aprile 1921: «L’imposta in natura» (In «La costruzione del socialismo», edizioni Rinascita, 1956) da cui traiamo tutte le citazioni: «Il socialismo è inconcepibile senza la tecnica della grande industria capitalista, organizzata secondo l’ultima parola della scienza moderna». In effetti non c’è altra «via al socialismo» – sul piano strettamente economico, si intende – che il passaggio attraverso l’accumulazione del capitale, compito che, «normalmente», spetta alla società borghese, non al potere del proletariato. Ma in Russia, poiché la borghesia non ha assolto la sua missione storica, bisogna che il proletariato si assuma la realizzazione di questa condizione indispensabile al socialismo. Bisogna, per poter più tardi abolire il salariato, trasformare in salariati milioni di contadini che vegetano in «campagne sperdute», in cui «decine di chilometri senza strade separano il villaggio dalle ferrovie». Bisogna, per sopprimere successivamente lo scambio mercantile, introdurlo prima in «quei territori dove regnano il patriarcalismo, la semibarbarie e la barbarie vera e propria». Bisogna altresì pro muovere la «grande industria» e la «tecnica moderna», attaccando il «sistema patriarcale, la indolenza», che sono il retaggio della vita sociale nell’immensa campagna russa.

La realizzazione di questo compito gigantesco non ha mai rappresentato, per Lenin e per tutti i marxisti degni di questo nome, una realizzazione socialista, ma capitalismo bello e buono. Ad onta e vergogna dei professori che trasformano in sciocchezze da eruditi le coscienti e criminali falsificazioni compiute dallo stalinismo, il socialismo non si «costruisce» in opere di cemento e ferro indispensabili al funzionamento delle forze produttive moderne: il socialismo è la liberazione di queste forze già esistenti, è la distruzione degli ostacoli che loro oppongono rapporti di produzione sorpassati.

Il dramma della rivoluzione di Ottobre è che il proletariato russo, a differenza del proletariato occidentale se fosse giunto al potere, non aveva una sola serie di catene da spezzare, bensì due, e che l’ostacolo costituito dai rapporti di produzione borghesi, superati alla scala internazionale e storica, sono ancora necessari, indispensabili, alla scala russa.

«Il capitalismo» – scrive Lenin«è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene in confronto al periodo medioevale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo che è legato alla dispersione dei piccoli produttori. Poiché non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è, in una certa misura, inevitabile, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del capitalismo di Stato) come anello intermedio tra piccola produzione e socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive» (sottolineato da noi).

Il peggior crimine di Stalin nei confronti del proletariato, crimine anche più mostruoso del massacro dei rivoluzionari, dell’imposizione ai lavoratori russi di una schiavitù innominabile e dell’abbandono degli operai di Occidente alla mercé della loro borghesia «democratica», è di aver fatto del mezzo invocato da Lenin uno scopo; è di aver trasformato una «via storica» in uno stadio finale e totalmente assimilato il socialismo al capitalismo, imbrogliando a tal punto le carte che, per gli imbecilli e i profittatori che incensano Lenin calpestandone l’insegnamento, il compito del socialismo è divenuto, punto per punto, l’accumulazione del capitale!

Ma perché dunque, nella prospettiva che Lenin formula per la Russia, si parla di capitalismo di Stato? Perché il socialismo, se non è realizzabile senza preventivo sviluppo capitalistico, non lo è a maggior ragione senza il «dominio del proletariato nello Stato». Lo Stato uscito dalla rivoluzione d’Ottobre è proletario; ciò significa che è uscito da una rivoluzione condotta dal proletariato, che è retto da un partito proletario, e armato della dottrina specifica di questo stesso proletariato. Questo sul piano politico. Ma, sul piano economico, in che cosa Stato è socialista. Lenin esce chiaramente come stanno le cose: «Non si è trovato un solo comunista, mi pare, il quale abbia negato che l’espressione ‹Repubblica socialista sovietica› significa decisione del potere sovietico di attuare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto riconoscere che l’attuale sistema economico è socialista».

Lenin, che nel testo usa frequentemente il termine «passaggio», ha cura di definire per dove la Russia deve passare per giungere, dallo stadio economico e sociale dell’epoca, al socialismo: «In Russia predomina ora proprio il capitalismo piccolo borghese, che conduce sia al grande capitalismo di Stato che al socialismo attraverso la stessa strada, una strada che passa per la stessa stazione intermedia e che si chiama ‹inventario e controllo da parte di tutto il popolo sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti›». E insiste: «Non si può progredire dall’attuale situazione economica in Russia senza passare attraverso ciò che è in comune tanto al capitalismo di stato quanto al socialismo (inventario e controllo da parte di tutto il popolo)».

L’idea di Lenin è chiara, anche se poi la si è vergognosamente imbrogliata: la via attraverso la quale la Russia deve passare per giungere al socialismo è imperativamente determinata dallo stato economico e sociale del paese dopo la rivoluzione. È solo la natura politica dello Stato (perché questo Stato è proletario) che garantisce che non ci si fermerà lungo la strada, che non ci si arresterà ad una delle «stazioni intermedie» che hanno nome «piccola produzione mercantile», «capitalismo privato», «capitalismo di Stato», ma al contrario si proseguirà a tutto vapore verso quello che risplende, ma ancora lontano, delle fiammeggianti lettere di socialismo. Ma questo bisogna ripeterlo fino a sazietà alla condizione indispensabile che la vittoria internazionale del proletariato, spezzando la forza del capitale in tutti i suoi gangli mondiali, dia alla «locomotiva» della rivoluzione russa il disco verde su tutta la linea!

Se questa chiara prospettiva è oggi nascosta sotto confusioni inestricabili, è senza dubbio, in primo luogo, a causa delle falsificazioni spudorate dello stalinismo. Ma è anche in ragione del corso dello sviluppo storico che registra sconfitte su sconfitte del proletariato, rinnegamenti su rinnegamenti del suo partito: il riflusso generale del movimento proletario, che si è verificato in tutti i campi, ha compiuto i peggiori disastri in quello della nozione che il proletariato può avere della propria storia. Se ne ha la prova flagrante nel fatto che la rivoluzione d’Ottobre è stata snaturata non solo dallo stalinismo, ma dalla maggior parte degli anti-stalinisti.

È questo specialmente il caso del punto di vista «estremista» secondo cui la sconfitta della rivoluzione dovrebbe essere imputata alla concezione «leninista» del capitalismo di Stato.

Mostreremo nel prossimo articolo che questo argomento crolla di fronte ad una realtà indiscutibile: quello stadio economico – semplice «passo avanti» per Lenin –, lo stalinismo non l’ha nemmeno fatto. Prova indiscutibile che non se ne può identificare la pretesa realizzazione col trionfo della controrivoluzione staliniana. Questa, impossessandosi delle leve della «locomotiva della storia», ne ha fatto una macchina asfittica che, dopo una timida puntata in direzione del capitalismo di Stato, si appaga di far l’altalena fra le «stazioni intermedie» che la separano dalla piccola produzione e fra le quali figurano i «depositi» scelti di preferenza dai valorosi macchinisti del «socialismo in un paese solo».

Molti antistalinisti, che non dispongono di criteri diversi da quelli della «democrazia», della «morale politica», o del «miglior tipo di organizzazione», condannano l’insegnamento di Lenin perché, secondo loro, assimilerebbe socialismo e capitalismo di Stato. È un’aberrazione comune alla maggior parte dei critici di destra e di sinistra della rivoluzione russa. In Lenin, come abbiamo visto, la formula del capitalismo di Stato si impone unicamente per supplire a uno sviluppo più che insufficiente del capitalismo tout court. È un obbiettivo strettamente subordinato alle «.condizioni russe» del tutto inadeguato alle condizioni della rivoluzione proletaria nei paesi sviluppati in cui saranno prese immediatamente le prime misure socialiste, in particolare l’abolizione del salariato. Ciò che vi è di internazionale nella rivoluzione d’Ottobre, è il suo tratto politico essenziale: la necessità universale della dittatura del proletariato. Tutto ciò che vi si riferisce a problemi economici russi si colloca largamente al di qua del socialismo.

Gli «estremisti» che trasformano in dato di principio, in questione dottrinale, quello che era solo un obbiettivo transitorio nella gestione proletaria di un’economia arretrata, commettono sia pure in buona fede la stessa confusione che ha permesso allo stalinismo di trionfare nel movimento operaio internazionale.

6. Socialismo e piccola produzione

Come abbiamo visto nello capitolo precedente, la «via al socialismo» in Russia, per Lenin e per i bolscevichi, passava in modo apparentemente paradossale attraverso il capitalismo di Stato. Da tempo un certo estremismo si è impadronito di questa formula per concludere che, per Lenin, il socialismo si riduceva al capitalismo di Stato e che tale concezione aveva aperto la strada allo stalinismo. La confutazione di questa tesi esige alcune precisazioni indispensabili sull’evoluzione dell’economia russa dopo la rivoluzione d’Ottobre di cui cercheremo, a partire dal presente capitolo, di chiarire i caratteri essenziali.

Dobbiamo prima di tutto spiegare che cosa significhi, in questo campo specifico, il fenomeno politico che abbiamo chiamato «contro-rivoluzione staliniana» e che presenta difficoltà e contraddizioni che siamo ben lungi dal dissimularci. Quando, da un lato, affermiamo che senza il soccorso della rivoluzione internazionale, l’economia russa non poteva aspirare che ad uno sviluppo capitalistico, e dall’altro diciamo che tale capitalismo è opera dello stalinismo, una spinosa obiezione ci attende: in che cosa la politica economica di Lenin differiva da quella di Stalin e con quale diritto si può parlare di controrivoluzione quando essa prosegue l’opera delle forze politiche che ha abbattute?

Dobbiamo prima di tutto spiegare che cosa significhi, in questo campo specifico, il fenomeno politico che abbiamo chiamato «contro-rivoluzione staliniana» e che presenta difficoltà e contraddizioni che siamo ben lungi dal dissimularci. Quando, da un lato, affermiamo che senza il soccorso della rivoluzione internazionale, l’economia russa non poteva aspirare che ad uno sviluppo capitalistico, e dall’altro diciamo che tale capitalismo è opera dello stalinismo, una spinosa obiezione ci attende: in che cosa la politica economica di Lenin differiva da quella di Stalin e con quale diritto si può parlare di controrivoluzione quando essa prosegue l’opera delle forze politiche che ha abbattute?

In realtà, a questa obiezione abbiamo già risposto: l’economia russa liberata dallo zarismo tendeva al capitalismo in virtù di una necessità ineluttabile e non è su questo terreno che i bolscevichi intendevano affrontare il capitale, ma sul piano internazionale e nei paesi dove i suoi rapporti di produzione potevano essere immediatamente distrutti da una rivoluzione vittoriosa. Resta tuttavia da precisare che cosa rappresenti la controrivoluzione staliniana come orientamento impresso a tutto lo sviluppo storico della società russa moderna: si tratta non soltanto dell’abbandono di ogni prospettiva di un socialismo sia pure lontano, ma anche di una via di espansione capitalistica che è lungi dall’essere la più radicale e la più energica.

Sia ben inteso anzitutto che ogni contro-rivoluzione è politica, che si traduce in un cambiamento della classe al potere e non in un arresto dello sviluppo delle forze produttive, il che significherebbe un regresso nella civiltà di cui la storia moderna non offre alcun esempio. Così la Restaurazione del 1815 ha riportato l’aristocrazia al potere nel paesi d’Europa dai quali la rivoluzione del 1789 l’aveva cacciata, ma non ha arrestato lo sviluppo del capitalismo consecutivo a questa rivoluzione. In altre parole, ha trasformato i nobili in banchieri o proprietari fondiari, ma non ha ricondotto i borghesi allo stato di servi!

Allo stesso modo lo stalinismo, pur liquidando la rivoluzione internazionale, non è ritornato sul risultato ottenuto con la caduta dello zarismo: cioè la generalizzazione della produzione mercantile, lo sviluppo dell’economia capitalistica. È anche vero che tale contro-rivoluzione non ha restituito il potere alle classi decadute e questa è l’ultima, ma non la minore, delle obiezioni alle quali dovremo rispondere. Lo faremo per ora limitandoci a questa osservazione: la crisi del colonialismo di quest’ultimi vent’anni ha confermato che in tutte le rivoluzioni scoppiate in paesi arretrati o semifeudali, e in assenza del proletariato mondiale dalla lotta, è il capitalismo che scaturisce da queste rivoluzioni (anche in mancanza di una classe «fisica» di borghesi) quando lo Stato, come agente economico, instaura o mantiene rapporti capitalistici di produzione.

La nozione del ruolo determinante di «cerniera» che lo Stato gioca fra due modi successivi di produzione è indispensabile per comprendere tanto la funzione che Lenin gli assegnava nella rivoluzione di Ottobre, quanto per mettere in luce quella che ha effettivamente assolto sotto Stalin. Lo Stato, nella concezione marxista, è uno strumento di violenza al servizio della classe dominante e che garantisce un ordine sociale corrispondente a un determinato modo di produzione. Questa definizione è rigorosamente valida per lo Stato proletario salvo, beninteso, il fatto che esso esprime la dominazione delle classi sfruttate sulle classi sfruttatrici e non l’inverso e che è, d’altronde, votato a estinguersi con la scomparsa dei rapporti di produzione che ha per obiettivo di abolire. In questo ultimo campo lo Stato proletario, come qualunque altro, non ha che due mezzi di intervento: autorizzare o interdire.

Abbiamo visto che la rivoluzione russa, a causa del suo carattere duplice anti-feudale e anti-capitalistico, poteva certo «saltare» la tappa politica corrispondente alla sua prima faccia, ma non sottrarsi alla realizzazione del suo contenuto economico: distruggeva e rendeva impossibile ogni dominazione di classe fondata sull’accumulazione del capitale, ma non poteva sopravvivere senza tollerare, anzi incoraggiare, tale accumulazione. Il suo carattere proletario dipendeva, quindi, più da una potenzialità che da una realtà: il suo socialismo era più allo stato di intenzione che di possibilità materiale.

In queste condizioni e da quando diventa certa la sconfitta della rivoluzione comunista in Europa, su quale elemento è possibile orientarsi per stabilire il «limite» oltre il quale lo Stato cessa di mantenere ogni rapporto con la funzione rivoluzionaria del proletariato? Questo limite sul piano politico è facilmente determinabile: esso è stato superato da quando lo stalinismo ha rinunciato apertamente alla rivoluzione internazionale, condizione indispensabile del futuro socialismo russo. Ma sul piano economico e sociale, l’unico criterio solido è quello derivante dalla funzione dello Stato come è stata definita più sopra: lo Stato sovietico ha cessato di essere proletario da quando si è privato di ogni mezzo per interdire le forme economiche e sociali transitorie che era stato costretto ad autorizzare.

Se sul piano giuridico questa impotenza si manifesta ufficialmente solo con la Costituzione del 1936 che, stabilendo l’uguaglianza democratica tra operai e contadini, consacra lo schiacciamento del proletariato sotto l’immenso contadiname russo – sul piano economico e sociale è nella grande svolta operata nel campo delle strutture agrarie che tale impotenza soprattutto si manifesta. La propaganda staliniana, spalleggiata da tutta la intellighenzia internazionale, pretende che la «collettivizzazione» e la «dekulakizzazione» degli anni 1930 abbiano realizzato la seconda delle due rivoluzioni russe, la rivoluzione comunista contenuta in quella dell’Ottobre 1917. Questa spacconata – sostenibile solo con uno snaturamento totale di ogni criterio marxista – crolla davanti alla seguente constatazione: l’organizzazione della produzione agricola, che la Russia moderna trascina come una palla al piede, non solo non ha raggiunto il livello socialista, ma batte il passo a un gradino molto inferiore a quello delle agricolture dei paesi capitalistici sviluppati. Basterebbe a dimostrarlo l’endemica carenza di prodotti alimentari in Russia e la necessità che ancora oggi si impone di importare grano – in un paese che fu uno del primi produttori del mondo di questo cereale.

Contro l’opinione «estremista» molto diffusa secondo la quale la sconfitta del socialismo in Russia sarebbe dovuta all’impianto di un mostruoso capitalismo di Stato, occorre sottolineare di fronte a quale forma di produzione abbia in definitiva capitolato il potere proletario in questo paese. Basta rifarsi a Lenin per notare che cosa egli continuamente indicasse quale «nemico n. 1 del socialismo» nel suol discorsi e scritti e notare come questo nemico abbia tenuto duro nonostante tutte le riforme o trasformazioni sopravvenute in U.R.S.S. Nell’«Imposta in natura» già citata, Lenin elenca le cinque torme dell’economia russa:
1) L’economia naturale (cioè la produzione familiare quasi completamente consumata dai suoi produttori);
2) La piccola produzione mercantile («in cui è inclusa la maggioranza dei contadini che vendono il loro grano»);
3) Il capitalismo privato (la cul rinascita risale alla NEP);
4) Il capitalismo di Stato (cioè il monopolio del grano o l’inventario di tutti i produttori che il potere proletario si sforza di realizzare fra mille difficoltà);
5) Il socialismo: su quest’ultimo punto, Lenin si esprime con grande fermezza; esso non è, egli dice, che una «possibilità giuridica» dello Stato proletario. Una possibilità che avrebbe potuto divenire realtà immediata solo se la rivoluzione russa, come Lenin precisò duramente a Bucharin, avesse ereditato i risultati storici di un «imperialismo integrale», di un «sistema nel quale tutto fosse sottomesso al capitale finanziario» e nel quale «non restasse che sopprimere il vertice e mettere il resto nelle mani del proletariato».

Questo non era evidentemente il caso della Russia ed è perciò che nello schema di Lenin la lotta non si svolge fra il capitalismo di Stato – ancora allo stato di tendenza e di sforzo di inventario – e il socialismo, pura «possibilità giuridica» fondata in politica sulla natura del partito al potere, ma non in economia dove domina la piccola produzione, «ma è», sottolinea Lenin, «la piccola borghesia più il capitalismo privato (cioè le forme 2 e 3) che lottano insieme, di concerto, sia contro il capitalismo di Stato, sia contro il socialismo».

Dell’esito di questa lotta, oggi si possono misurare i risultati da come si presenta l’agricoltura russe attuale la quale, lungi dall’aver eliminato quella piccola produzione, l’ha immortalata sotto l’apparenza falsamente «collettivista» del colchos. Esamineremo nel prossimo articolo il contenuto economico e la influenza sociale di un tipo di cooperativa che differisce ben poco de quello esistenti nel paesi capitalisti occidentali. Vorremmo solo sottolineare che il partito del proletariato russo non è caduto di fronte all’avvento di «forme nuove» che il marxismo «non avrebbe previsto», di fronte ad un colossale termitaio di burocrati che la classe operaia avrebbe covato in seno, ma è stato vinto dalle condizioni storiche e sociali russe che sapeva fin dall’inizio di non poter dominare che con l’aiuto della rivoluzione comunista europea.

La peggiore delle falsificazioni staliniane è di aver dichiarato che, in tali condizioni, il socialismo era stato «costruito». Lenin denunciò in anticipo questa furfanteria, all’epoca della NEP: «Costruire la società comuniste con le mani del comunisti», – egli dice, – «è una idea puerile che non abbiamo mai espresso; i comunisti sono solo una goccia d’acqua nell’oceano popolare…». Si tratta di farlo, aggiunge, «con le mani degli altri», cioè permettere alle classi non proletarie di modernizzare la loro tecnica di produzione, di apprendere l’uso delle macchine moderne, insomma di realizzare le condizioni del socialismo e non il socialismo stesso; e tali condizioni non hanno altro nome che capitalismo!

Lo sviluppo del capitalismo è la eliminazione della piccola produzione. I comunisti russi vi si provarono alla maniera comunista e non borghese, cioè salvando l’esistenza e la capacità di lavoro del produttore parcellare pur strappandolo alla sua derisoria «proprietà», che è schiavitù ancora più grande della servitù della gleba. Fu nelle «comuni agrarie» che i bolscevichi si sforzarono di raggruppare i contadini sulla base di una gestione e di una distribuzione collettiva, senza proprietà individuale, senza lavoro salariato… Non vi riuscirono, come non vi riuscì più tardi l’altra via, quella di Bucharin fondata sulla speranza di un aumento del capitale di esercizio del contadino medio.

La «soluzione» che riuscì fu quella di Stalin: la collettivizzazione forzata, la più spaventosa, barbara o reazionaria che si possa concepire. Spaventosa perché nata da violenze quasi apocalittiche; barbara perché accompagnata da una distruzione incalcolabile di ricchezze, specialmente lo sterminio di bestiame di cui, dopo 40 anni, la Russia attuale ancora soffre. Reazionaria perché stabilizza il piccolo produttore – a differenza del capitalismo occidentale che lo elimina – in un sistema inadeguato dal punto di vista del rendimento retrogrado e dal punto di vista idealogico. Il colchosiano, che unisce l’egoismo tradizionale rurale e la avidità del lavoratore del campi, è proprio il simbolo del trionfo del contadiname sul proletariato, trionfo che la millanteria del «socialismo in un paese solo» nasconde.

7. Il falso socialismo dei colchos

L’argomento centrale che sviluppiamo dall’inizio di questo trattato è l’impossibilità del socialismo nei limiti della sola Russia. Dopo di aver sottolineato l’ostacolo colossale che per il potere proletario rappresentava l’esistenza di un immenso settore di piccola produzione, dobbiamo ora giungere al cuore della impostura staliniana; la pretesa di aver superato questo ostacolo e instaurato il socialismo grazie al sistema colchosiano. Noi sosteniamo che quello che in realtà ha trionfato in Russia è il capitalismo, ma le vie che esso ha seguito, oltre a sconcertare quanti si preoccupano più di catalogare le forme che di studiarne il contenuto, furono quelle di un lungo compromesso economico quelle sociale con la piccola produzione, come cercheremo di spiegare.

Questo compromesso non deve essere attribuito al pensiero lungamente maturato di un capo geniale, come l’hanno osannato gli adulatori servili di Stalin in tutti i paesi, ma alle esigenze dispotiche di condizioni politiche ed economiche ben precise che non possiamo analizzare senza rifarci allo scontro di posizioni, già rievocate su queste colonne, all’interno del partito bolscevico sulla questione agraria. Si vedrà che la sinistra di Trotzki dava la priorità allo sviluppo dell’industria come premessa indispensabile alla ripresa dell’agricoltura, mentre la destra di Bucharin puntava sull’accumulazione di capitale da parte delle classi medie delle campagne.

Di quel dibattito bisogna ricordare la differenza categorica che esso mette in luce fra le preoccupazioni della sinistra e della destra del partito e quelle del centro staliniano, il quale d’altronde ben poco si curava della giustezza delle tesi in contrasto; ciò che gli importava, in quanto espressione politica dello Stato nazionale russo, era l’eliminazione spietata dell’ultima falange internazionalista del partito. Lo stalinismo agiva già sul suo terreno specifico: l’abbandono della lotta per la rivoluzione mondiale, la stabilizzazione e il consolidamento delle strutture esistenti, la trasformazione del centro di direzione rivoluzionaria del proletariato mondiale in un puro e semplice apparato statale nazionale. Delle intenzioni e delle ambizioni di Stalin, né TrotzkiBucharin avevano ancora piena coscienza, tanto era cruciale, rispetto alle sordide manovre del «segretario, generale», l’importanza delle decisioni sulle quali si dividevano. Nessuna di questa poteva avere efficacia duratura se la rivoluzione internazionale non ritrovava il suo respiro e, in questa attesa, le diverse posizioni assumevano, per i loro appassionati difensori, la forma di un «tutto-per-tutto» che li portava all’intransigenza, non alla conciliazione. Agli occhi di Trotzki, il quale non vedeva altra salvezza che in un’energica industrializzazione, Bucharin, politicamente utilizzato e difeso da Stalin, appariva come il difensore del contadino ricco. Per Bucharin, l’industrializzazione prioritaria era gravida di implicazioni burocratiche e meglio valeva che l’accumulazione del capitale, di cui si sarebbe venuti a capo in seguito, fosse affidata a una borghesia rurale. L’asprezza del conflitto fra sinistra e destra, egualmente impegnate a mantenere le basi economiche meno sfavorevoli alla dittatura del proletariato, nascondeva ad entrambe la minaccia che pesava sulla base politica e che veniva dal centro, del quale esse sottovalutavano il pericolo controrivoluzionario.

È per uno scopo politico, in realtà, che Stalin sostiene la «soluzione Bucharin», legandolo così alla formula liquidatrice del «socialismo in un paese solo». La parola d’ordine «contadini arricchitevi», per contro, non ebbe affatto sul piano economico il risultato previsto dalla destra: invece di accrescere il suo capitale di esercizio, come sperava Bucharin, il contadino medio si limitò a migliorare il proprio consumo personale. La produzione di cereali precipitò al punto, che ancora una volta lo spettro della carestia nelle città riapparve.

Nel gennaio 1928 la produzione di grano, inferiore del 25 % a quella dell’anno precedente, accusa un deficit di 2 milioni di tonnellate. La direzione staliniana del partito e dello Stato, incontestata dopo che il XV congresso ha escluso la sinistra, reagisce inviando contingenti armati nei villaggi. Repressioni e confische di stock si alternano a rivolte contadine e a massacri di operai mandati dal partito nelle campagne. In aprile le riserve di grano bene o male sono ricostituite; il Comitato centrale fa macchina indietro, condannando gli «eccessi» che esso stesso ha ordinato. Si può dire, come fanno in tutte le lingue i catechismi muniti dell’imprimatur staliniano, che si tratti di una linea di condotta saggiamente elaborata? In realtà, il Comitato centrale agisce sotto l’effetto del panico e del più grossolano empirismo. Non dispone, scrive Trotzki, di nessuna linea politica che abbracci non diciamo qualche anno, ma neppure qualche mese! In luglio il Comitato centrale proibisce tutti i sequestri di grano di cui, d’altra parte, aumenta il prezzo, mentre conduce una violenta campagna contro i kulak, che accusa la destra di difendere.

Sempre in luglio – qualche mese appena ci separa dalla successiva collettivizzazione forsennata – Stalin se la prende con «coloro che pensano che l’economia parcellare sia allo strenuo delle forze», e che, aggiunge, «non hanno nulla in comune col nostro partito»! Benché il primo piano quinquennale, adottato fin dal 1929, preveda solo il 20 % di collettivizzazione della terra, e unicamente per il 1933, l’idea del colchos si fa strada nel Comitato centrale con la formula spaccona: «introduzione del comunismo in agricoltura!».

Attaccato nell’aprile 1929, Bucharin capitola in novembre sotto una valanga di insulti, calunnie e minacce del più puro stile staliniano. Secondo un concetto di irresponsabilità diffusosi fino nell’ultima cellula dei vari P.C. nazionali, è la destra che diviene il capro espiatorio dell’insuccesso della formula buchariniana. La cricca che non ha mai potuto prendere altra decisione se non quella della repressione, ne uscirà con l’aureola della scoperta di una «soluzione» che non ha nulla di comune col socialismo: un insieme di cooperative che, agendo nel sistema del mercato, finirà per sfuggire ad ogni «controllo e inventario» dello Stato e sposerà le insufficienze economiche della piccola produzione con la mentalità retrograda e reazionaria del contadino.

Nel corso del secondo semestre del 1929 e in tutto l’anno successivo, in un indescrivibile marasma di confusione, arbitrio e violenza, si realizza quella che il Comitato centrale chiama «dekulakizzazione» e «collettivizzazione». Anche qui, sembra che la manovra politica abbia la meglio sull’iniziativa economica: si tratta, di fronte alla minaccia della carestia e delle sommosse, di volgere l’odio secolare del contadino povero contro il contadino medio, per superare così uno scoglio difficile per l’esistenza stessa dello Stato. Nulla è pronto, in effetti, per realizzare una «collettivizzazione», per la quale esistono in tutto 7000 trattori quando, secondo Stalin, ne occorrerebbero 250 000! Per incitare il piccolo produttore a aderire al colchos, lo si dispensa per altro dall’apportarvi una dotazione di bestiame: venda dunque o mangi egli stesso stesso quello che possiede! I primi risultati del provvedimento si rivelano catastrofici, provocando in alcune regioni la resistenza armata dei contadini contro funzionari che «collettivizzano» perfino le scarpe e gli occhiali!

Al momento cruciale delle semine di primavera, il timore di una guerra civile spinge il gverno a condannare gli «eccessi» della collettivizzazione e a permettere ai contadini di lasciare i colchos; ne viene la loro uscita in massa e riduce alla metà il totale dei colchosiani: come osserva Trotzki, «il film della collettivizzazione si snoda a rovescio». Perché una nuova massiccia entrata di contadini nei colchos sia possibile e autorizzi Stalin a inneggiare al «successo della collettivizzazione», bisognerà far loro concessioni tali da annullare socialmente quanto v’era nel colchos di tecnicamente «collettivo». Ma, prima di esaminarne il contenuto, dobbiamo spiegare le cause della collettivizzazione stessa.

Secondo l’opinione comune agli staliniani e ai loro avversari di sinistra, essa sarebbe stata una risposta resa necessaria dal ricatto esercitato sul potere sovietico dalla borghesia rurale, ricca (kulak), l’importanza della quale non avrebbe cessato di accrescersi dalla rivoluzione in poi. Le cifre di cui disponiamo tendono invece a indicare l’estendersi della produzione dei contadini medi e piccoli, la cui esistenza rendeva estremamente lento lo sviluppo del lavoro salariato in agricoltura, condizione indispensabile alla progressiva eliminazione della piccola produzione. In queste condizioni, la collettivizzazione non si presenta come una «svolta a sinistra» dello stalinismo, come una velleità «socialista» della burocrazia statale, bensì come il sole mezzo, nelle condizioni arretrate della campagna russa, per affrettare e spingere – a caldo e sotto l’effetto di una crisi acuta – il corso generale dell’economia in direzione del capitalismo.

Si hanno buone ragioni di credere che in realtà Stalin si sia lanciato in questa avventura perché incoraggiatovi dai successi delle requisizioni di grano cominciate 1929, dai rapporti favorevoli sullo sviluppo delle cooperative, e soprattutto dalla convinzione della debolezza della resistenza dei contadini nell’insieme. Comunque, il determinismo dei fatti, se non la dimostrazione statistica, è probante: la «forma colchos» si è dimostrata la sola possibile nelle condizioni economiche, sociali e politiche derivanti dal riflusso irreversibile della rivoluzione internazionale.

Qualunque soluzione politica sopraggiunge solo al termine di un processo che elimina le soluzioni alle quali facevano difetto le condizioni indispensabili; se ciò è evidente per le soluzioni rivoluzionarie, altrettanto è vero per quelle della controrivoluzione. Dopo lo sforzo sovrumano del proletariato, il capitalismo in Russia non poteva ritornare alla forma «sottosviluppata» di vassallaggio, dei tempi degli zar. Nè poteva essere eliminato dal socialismo, perché la rivoluzione internazionale era stata battuta. L’affermarsi, come «soluzione intermedia», di un capitalismo nazionale, cioè di un centro autonomo russo di accumulazione di capitale, non era possibile in tali condizioni che con la stabilizzazione colchosiana della immensa forza di conservazione sociale rappresentata dai contadini.

Questa via specifica, seguita da quello che si può chiamare «il capitalismo russo n. 2», esprime la complessa dialettica degli sconvolgimenti sociali nella fase imperialista: il modo capitalista di produzione è, per l’economia russa dell’epoca, rivoluzionario, ma è possibile solo grazie alla vittoria della controrivoluzione mondiale; l’eliminazione proletaria della borghesia russa fallita alla sua missione storica si conclude pur tuttavia col trionfo dei rapporti borghesi di produzione! Si capisce che questi eventi contraddittori, oggetto di profonde perplessità per tutta una generazione storica di rivoluzionari, rendono difficile una delucidazione per altro indispensabile. Se ne possono tuttavia condensare i termini riprendendo una vecchia formula lapidaria di Lenin, molto anteriore alla vittoria dell’Ottobre 1917, e che pone l’alternativa fondamentale per la Russia moderna: il proletariato per la rivoluzione o la rivoluzione per il proletariato? Lo stalinismo è, in fin dei conti, la realizzazione della prima parte della formula a detrimento della seconda: grazie al sangue del proletariato la Russia moderna ha fondato il suo Stato nazionale. Che importa la sparizione fisica della classe cui spettava storicamente questo compito? I rapporti di produzione che si sono instaurati dopo molti decenni di sconvolgimenti sono i rapporti propri di tale classe, e ne garantiscono la più o meno lontana ricomparsa.

Il tipo sociale nato dalla forma colchosiana incarna il lungo processo storico che è stato necessario per giungere a tale risultato. In quanto lavoratore della fattoria collettiva, il colchosiano – che percepisce una frazione di prodotto proporzionale alla sua prestazione di lavoro – si apparenta al salariato dell’industria, ma non diverrà tale se non al termine di una nuova evoluzione di durata imprevedibile, perché, grazie al suo piccolo appezzamento, non è un senza riserve, bensì un proprietario di mezzi di produzione, anche se limitati a 2 o 3 ettari di terreno, a qualche capo di bestiame e alla sua casetta. Per quest’ultimo aspetto egli sembrerebbe assimilabile al suo omologo occidentale, il piccolo produttore parcellare ma a differenza di quest’ultimo, rovinato dallo usuraio, dalla banca e dalla concorrenza del mercato, non può essere espropriato: il poco che gli appartiene è garantito dalla legge. Il colchosiano è dunque l’incarnazione di un compromesso perpetuato concluso fra lo Stato ex-proletario e la piccola produzione.

Condizione indispensabile per il socialismo è la concentrazione del capitale: la confisca da parte del proletariato di forme ultracentralizzate come trust, cartelli, monopoli – possibile perché proprietà e gestione sono da tempo scisse – diventa impensabile, se non a prezzo di prolungati sovvertimenti, per una miriade di micro-proprietari colchosiani. Non solo questa prospettiva socialista è definitivamente bandita dalla Russia, senza una nuova rivoluzione, ma ma la semplice concentrazione capitalistica urta contro difficoltà tali, che ancor oggi la Russia si sforza di riuscirvi riprendendo dall’inizio il processo storico già percorso dai paesi sottosviluppati: questo è il senso del ristabilimento dei principi della concorrenza e della redditività, sui quali i dirigenti russi probabilmente contano per eliminare i colchos non competitivi e, in una lunga prospettiva che esamineremo poi, trasformare i loro membri in veri e propri salariati.

Il «collettivismo» rurale del la Russia non è dunque socialista, ma cooperativo. Prigioniero delle leggi del mercato e del valore della forza lavoro, esso presenta tutte le contraddizioni della produzione capitalistica senza contenerne il lievito rivoluzionario: l’eliminazione del piccolo produttore. Ma ha permesso allo Stato nazionale russo, saldamente poggiante sul contadiname «stabilizzato», di realizzare, a prezzo di innominabili sofferenze della classe proletaria, la sua accumulazione primitiva e di giungere al suo unico elemento di capitalismo moderno: l’industrialismo di Stato.

8. Tutte le tare di una agricoltura capitalistica

Abbiamo dedicato gli ultimi capitoli alla denuncia dell’impostura staliniana che applica l’etichetta «comunista» a un particolare tipo di cooperativa contadina: il colchos, mostrando che la genesi di questo tipo di associazione di produttori non costituiva affatto un «passaggio» da uno stadio preteso «socialista» ad uno superiore, ma rappresentava, al contrario la stabilizzazione, sotto la spinta di imperiose esigenze politiche e sociali, di forme agrarie proprie di un capitalismo inferiore.

Socialismo è innanzitutto abolizione dei rapporti di scambio fondati sul valore; distruzione delle loro categorie fondamentali: capitale, salario, denaro. Queste categorie il colchos le garantisce sul piano della trasformazione del piccolo produttore rurale, di cui cristallizza la posizione sociale sia con la remunerazione in denaro (o in prodotti negoziabili) a compenso del lavoro in una fattoria cooperativa, sia con lo sfruttamento del campicello e del bestiame di proprietà personale, i cui prodotti possono parimenti essere venduti sul mercato. Quindi, lungi dall’essere un tipo di «socialismo», il colchos si avvicina piuttosto ai sistemi detti «d’autogestione» che in certi paesi sottosviluppati, divenuti politicamente indipendenti, dissimulano con una usurpazione di termini identica a quella del precedente russo, il ruolo di ponte di passaggio storico da essi svolto fra l’arcaica produzione naturale precedente il capitalismo e il pieno sviluppo di quest’ultimo.

Dopo di aver esaminato le motivazioni politiche della «collettivizzazione forzata» e sottolineato in particolare l’appoggio che per suo tramite la controrivoluzione staliniana trovò nell’immenso contadiname sovietico, dobbiamo ora mostrare che appunto per questa via – tortuosa ma dalle caratteristiche inequivocabili – un autentico capitalismo nazionale si è affermato sulle rovine della rivoluzione d’Ottobre.

La figura del colchosiano riflette bene l’impasse economico e sociale di una rivoluzione che, nell’ambito dei suoi confini nazionali, non poteva superare lo stadio di una trasformazione storica borghese. Il colchos, transizione necessariamente imposta dall’abbandono della strategia rivoluzionaria internazionale, non ha cessato di costituire il principale ostacolo al rapido sviluppo del capitalismo in Russia.

Non che tale ostacolo rappresentasse le sopravvivenze irriducibili di un «vecchio corso» in direzione del socialismo, come i trotzkisti continuano a sostenere malgrado tutte le smentite dei fatti: esso dimostra al contrario il pesante tributo che il proletariato paga alla storia quando la controrivoluzione, dopo aver distrutto la prospettiva del socialismo, non offre nemmeno la contropartita di crearne le premesse economiche e sociali più radicali.

Rilevando i ritardi e le difficoltà economiche della Russia attuale, da cui gli economisti e i politici occidentali credono di poter dedurre un «fallimento del comunismo», noi intendiamo invece stabilirne le cause reali, demolendo non solo le menzogne dello stalinismo e le illusioni di quanti sostengono la sopravvivenza in Russia di «conquiste socialiste», ma anche la critica rivolta a Lenin di avere imprudentemente imboccato la strada del capitalismo di Stato. Il colchos non appartiene a quest’ultima categoria, più di quanto non sia una «realizzazione socialista». I suoi beneficiari sono contadini che hanno apportato al fondo collettivo una parcella di terreno e un certo numero di capi di bestiame (se non ne disponevano vi ha provveduto lo Stato). Il colchosiano partecipa alla valorizzazione collettiva di tutte le parcelle ormai riunite e della dotazione di bestiame così costituita, riceve una parte del prodotto di tale valorizzazione proporzionale al numero delle giornate di lavoro che vi ha dedicate, mentre dispone di un pezzo di terreno e di un certo contingente di bestiame, dei quali utilizza i prodotti a suo piacere.

Per la sua condizione come per la sua psicologia sociale, il colchosiano è estraneo al socialismo come può esserlo il farmer americano o il frutticoltore di una cooperativa emiliana; per il modo in cui gli è retribuito il lavoro nella fattoria collettiva, assomiglia sì al lavoratore salariato, ma anche al piccolo azionista dei paesi capitalisti, poiché come lui percepisce una parte del profitto di intrapresa. La disponibilità del suo minuscolo patrimonio, gli conferisce, invece, una posizione identica a quella del contadino parcellare d’Occidente. Il «personaggio» della società rurale russa più simile al proletariato dei paesi capitalistici occidentali, e quindi suscettibile di comportarsi come tale, è il lavoratore dei sovchos. Ma quella del sovchos, o impresa di Stato, rappresenta solo una piccola parte della produzione agraria russa.

Il colchos, da qualunque angolo lo si consideri, è il fattore sociale ed economico più reazionario della società sovietica, a causa non solo della psicologia conservatrice dei suoi membri, ma anche del peso che rappresenta sulla sola classe moderna: il proletariato.

È facile capire come, scampato alla fame e all’espropriazione grazie al colchos, il piccolo produttore rurale russo non abbia lesinato il suo sangue, nell’ultima guerra mondiale, per difendere le sorti dello Stato staliniano, le garanzie di sopravvivenza e di stabilità che questo gli assicurava. Ma bisogna considerare l’insieme della struttura economica e sociale russa, per comprendere come questa sopravvivenza e stabilità sia dovuta, in definitiva, al supersfruttamento del proletariato. La mediocrità delle condizioni sociali nelle campagne russe non deve ingannare il sistema colchosiano, oltre ad accentuare le storture fondamentali della natura capitalistica dei rapporti di produzione, costituisce il principale ostacolo all’elevazione generale del livello di vita.

Imposta dalla strategia politica dello stalinismo, che aveva scisso le sorti dello Stato russo da quelle del proletariato internazionale, la forma colchosiana è divenuta quasi inestirpabile nella misura in cui può essere eliminata – come desidererebbero gli attuali dirigenti sovietici – solo dalla concorrenza di una forma a produttività superiore, la cui apparizione, salvo un sovvertimento generale, appare ancora lontana. Qualche cifra basta a fissare le idee a questo proposito: le rese medie in cereali che, pur essendo aumentate (dal 1913 al 1956: +25 % contro il +30 % circa degli USA e del Canada), sono insufficienti in confronto all’incremento demografico; la percentuale ancora elevata della popolazione contadina, prova caratteristica della bassa produttività agricola (42 % contro il 12 % degli USA e il 28 % della Francia); la spaventosa situazione del patrimonio zootecnico che, a parte una crescita spettacolare dell’allevamento dei suini (+63 %), ha registrato una diminuzione di circa il 20 % dal 1913 per i bovini da carne e da latte.

Questa carenza del sistema colchosiano non risiede soltanto nelle insufficienze della sua produzione, ma e ancor più nel suo modo d’orientarsi vendendo ai colchos i trattori di cui prima noleggiava i servizi, lo Stato russo si è privato del solo mezzo di pressione di cui disponeva per imporre la produzione delle derrate indispensabili delle quali prima della famosa riforma di Chruščëv, esso stesso fissava la quantità e il prezzo. Si è visto quindi lo stesso promotore di questa riforma battere le campagne ed esortare senza successo i colchosiani a produrre grano invece dell’orzo e dell’avena che permettono l’allevamento molto più redditizio dei suini. Così, nel regime di pseudo «socialismo» russo, la forma di lucro delle imprese colchosiane prevale sulle esigenze alimentari di un «popolo» che si pretende sia al potere!

Tuttavia, ciò non significa che la sorte degli stessi colchosiani sia paradisiaca. Sembra al contrario che al netto di tutti i prelievi sulla produzione lorda del colchos (fra i quali figurano esattamente le stesse voci che in tutte le imprese capitaliste occidentali, e in particolare un tasso di investimento dello stesso ordine di grandezza) resti ben poco da «spartire» fra i soci. Questo fatto, costringendo il colchosiano ad arrotondare il magro «salario» con la vendita dei prodotti del suo campicello personale, aggrava ulteriormente l’anarchia dell’approvvigionamento della popolazione.

In effetti, lo scarso rendimento in cereali (che costituiscono ancora la base dell’alimentazione russa) si unisce all’indipendenza di fatto del colchos, e quindi alla sua tendenza a produrre di preferenza non ciò che è indispensabile, ma ciò che rende di più, facendo così diminuire l’offerta di derrate sul mercato ufficiale e alzare i prezzi sul mercato privato. Infatti il colchosiano ricava dalla vendita su questo mercato dei prodotti del suo appezzamento tanto quanto dal lavoro nel colchos. Per farsi un’idea del prezzo ai quale il salariato urbano deve pagare i suoi mezzi di sussistenza, basta sapere che, nel 1938, i ¾ dei prodotti agricoli messi sul mercato provenivano ancora dai campicelli individuali e meno del quarto restante era fornito dai colchos propriamente detti; ancor oggi, la metà del reddito globale del colchosiano è costituito dai frutti del lavoro sul suo pezzetto di terra.

Qui manca spazio per riferire come la «riforma Chruščëv» del colchos si sia imposta ai dirigenti sovietici (vedasi il nostro «Dialogato con Stalin»), ma essa dimostra che l’economia russa – e in particolare il suo tallone d’Achille, l’agricoltura – obbedisce alle leggi inesorabili del capitalismo. Il solo criterio inconfutabile del socialismo è il trionfo del valore d’uso sul valore di scambio: solo quando esso è divenuto realtà, si può affermare che la produzione serve i bisogni degli uomini e non quelli del capitale. L’agricoltura pseudo-socialista dell’URSS illustra in modo lampante il caso opposto: sono le leggi del mercato e non i bisogni più elementari dei lavoratori che determinano quantitativamente e qualitativamente la produzione dei colchos.

Lo stesso sviluppo dell’economia russa in generale, che le permette e le impone nello stesso tempo l’accesso al mercato mondiale, ne illumina ancor più le contraddizioni. La concorrenza internazionale esige costi di produzione poco elevati, quindi il ribasso dei prezzi agricoli per poter nutrire la forza lavoro salariata senza doverla pagare troppo. Questa è una delle contraddizioni fondamentali del capitalismo, poiché, a causa dei limiti naturali imposti nel settore agricolo alla rotazione del capitale, questo si dirige di preferenza verso l’industria. L’incremento della produttività agricola, al quale il capitalismo occidentale è comunque arrivato grazie all’industrializzazione delle colture e alla secolare espropriazione del piccolo produttore, è molto più difficile da conseguire per il capitalismo russo a causa dell’inamovibile settore colchosiano che il potere sovietico si sforza solo di «selezionare», incoraggiando i colchos in attivo a scapito di quelli in passivo.

Si può immaginare quale grado di sfruttamento tale potere debba imporre ai suoi salariati industriali per riuscire egualmente ad abbassare i costi di produzione, venendo così ad aggiungere alla miseria endemica del settore agrario, dovuta alle condizioni che abbiamo esposte, lo sfruttamento più barbaro degli operai.

Il capitalismo russo, come tutti i giovani capitalismi, getta la luce più cruda su tutte le contraddizioni del capitalismo in genere; perciò i suoi lacchè internazionali non potranno tacere ancora per molto la natura sfruttatrice del preteso «socialismo in un paese solo», mantenendo all’infinito la superstizione che in tutti i paesi disarma il proletariato di fronte alla propria borghesia.

9. La realtà del capitalismo russo

La prova dello sfruttamento della forza lavoro non sta solo nel fatto che la classe che lavora riceve soltanto una parte del prodotto sociale, mentre quella che non fa nulla se ne appropria una grossa fetta per il suo consumo personale. Una tale «ingiustizia» non conterrebbe in sé la prospettiva della possibile e necessaria scomparsa del capitalismo. Ciò che condanna irrevocabilmente quest’ultimo sul piano storico, è la necessità in cui si trova di trasformare una parte sempre crescente del prodotto sociale in capitale: questa cieca forza sociale sopravvive solo esasperando sempre più le proprie contraddizioni, e quindi anche la rivolta di quella classe che ne è la prima vittima.

Denunciare l’esistenza di questa cieca forza nella Russia sedicente «socialista» non significa dunque «attaccare e diffamare il comunismo», come sostengono gli staliniani per la pelle; bensì smascherare la sua più spudorata contraffazione; signitica orientare l’avversione istintiva degli operai per manifestazioni visibili del capitalismo contro la sua intima essenza contro le sue categorie assassine: salario, denaro, concorrenza, significa dimostrare che il movimento proletario è stato sconfitto perché, in Russia e altrove, ha capitolato di fronte a queste categorie.

Altri hanno descritto molto meglio di come potremmo fare noi il feroce sfruttamento della forza lavoro in Russia; ci limiteremo quindi ad illustrarne le cause alla luce di una delle leggi più caratteristiche del capitalismo: quella dello sviluppo crescente, proprio a tutti i paesi borghesi, della sezione che produce beni di produzione (sezione I) a detrimento della sezione (II) che produce beni di consumo.

«Non lavoro ma cannoni»; questa formula di Hitler, ieri beffeggiata da coloro che oggi la imitano con la loro «forza d’urto» e i loro «deterrenti», potrebbe così tradursi in russo: non scarpe ma macchine, non industria leggera ma pesante, non consumo ma accumulazione. Poche cifre bastano a dimostrarlo: dal 1913 al 1964 la produzione industriale globale russa si è moltiplicata per 62; quella della sezione I per 141, quella della sezione II per 20. Tenendo conto dell’incremento demografico sopravvenuto fra queste due date, la sezione dei beni di produzione si è ingrandita di 113 volte , quella dei beni di consumo di 12!

Ma ben più importanti sono gli effetti sociali di tale contrasto fra produzione e consumo; si potrà colmare il «ritardo» dell’industria leggera, si potrà ovviare alle sue carenze, ma l’economia russa non si libererà più dalla contraddizione inseparabile del capitalismo: accumulazione della ricchezza a un polo e della miseria all’altro.

Che oggi questo aspetto mostruoso del «modello russo» di socialismo non riempia di sdegno gli operai, è il più grave delitto di cui il verdetto della storia farà carico allo stalinismo. Esso ha ridotto i termini di «socialismo» e «capitalismo» a semplici etichette diverse per indicare lo stesso contenuto.

Quando manovali ed operai accettano come eterni il cottimo, la gerarchia dei salari e tutti gli altri aspetti della concorrenza fra venditori di forza lavoro, è facile all’intellettuale opportunista convinto che il principale merito della rivoluzione d’Ottobre sia stato quello di strappare la Russia dalla sua arretratezza economica – assimilare socialismo ad accumulazione del capitale. Il fatto che tutto il Terzo Mondo in rivolta contro l’imperialismo faccia a sua volta propria questa concezione, mostra l’ampiezza di una sconfitta del movimento proletario che non ha solo distrutto la forza viva della classe operaia, ma ne ha pure alterato profondamente la coscienza politica. Seguendo questa spaventosa «via al socialismo» si condannerebbero tutti i proletari del mondo a ripercorrere uno dopo l’altro l’orrendo calvario che è stato dovunque quello del capitalismo.

Basta ricordare che cosa esso fu in Russia sotto Stalin. I piani quinquennali – troppo facili da ammirare per l’intellettuale occidentale che non ha mai toccato un utensile in vita sua – furono letteralmente un inferno di lavoro, un carnaio di energie umane; essi sopprimevano le garanzie più elementari degli operai; con l’istituzione del «libretto di lavoro», riportavano la condizione del salariato russo allo stesso livello del salariato francese sotto la sferza poliziesca del Secondo Impero; piegavano i lavoratori ai metodi infamanti dello stacanovismo, reclutavano la manodopera a colpi di repressioni; la sperperavano in «realizzazioni» spesso inutili; chiamavano sabotaggi frutti dell’incuria burocratica, li facevano pagare in processi di una mostruosità medievale a «trotzkisti» o cosiddetti tali. Questi «eccessi staliniani» non furono dovuti, come oggi pretendono coloro che devono ad essi le proprie sinecure di burocrati o di politici, alle «condizioni specifiche» del «socialismo russo», bensì alle condizioni generali, universali, proprie della genesi di ogni capitalismo. L’accumulazione originaria del capi tale inglese uccise migliaia di contadini liberi; quella del nascente capitalismo russo tra sformò i cittadini in delinquenti politici per farne meglio dei forzati: durante la seconda guerra mondiale, i capi della N.K.V.D. (polizia politica) a corto di manodopera reclutata nei campi di concentramento, fecero questa edificante autocritica: non siamo stati abbastanza vigili nella nostra opera di sorveglianza politica!

Tutte queste atrocità sono state commesse incensando un falso Iddio, si cantavano le lodi del socialismo, si sacrificava alla produzione! Lo slancio industriale del dopoguerra favorirà questa soperchieria; secondo Stalin, il capitalismo decadente non essendo più capace di sviluppare le forze produttive (parole d’oro per i «comunisti» occidentali membri di governi borghesi di ricostruzione patriottica: dei scioperi diventano «armi trust»!), la prova del socialismo in URSS la si doveva trovare nella curva ascendente degli indici di produzione nell’atto stesso in cui quelli dell’occidente capitalista ristagnavano.

L’illusione doveva durare giusto il tempo necessario all’economia occidentale per prendere un nuovo slancio. È questa una costante nella storia del capitalismo: il tasso di incremento della produzione diminuisce nella misura in cui il capitalismo invecchia. Questo tasso, tanto più elevato per il giovane capitalismo russo in quanto esso partiva pressoché da zero, doveva ritrovare in seguito il suo vero posto dietro i capitalismi, certo più vecchi ma notevolmente ringiovaniti dalle distruzioni belliche. Se il tasso annuo di incremento della produzione fosse realmente un criterio di socialismo, si dovrebbe ammettere che la Germania Federale e il Giappone, i cui indici di produzione galoppano a un ritmo allucinante, siano più socialiste della Russia! In quest’ultimo paese, infatti l’aumento medio annuo della produzione rallenta progressivamente: 22,6 % dal 1947 al 1951; 13,1 % dal 1951 al 1955; 9,1 % dal 1959 al 1965. Questo fatto, che si ripete nella storia di tutti i capitalismi, conferma che l’economia russa non sfugge a nessuna delle loro caratteristiche essenziali.

Il bluff staliniano sulla marcia irresistibile della produzione russa, doveva crollare dopo di aver servito di pretesto alla liquidazione della «guerra fredda» e alla riconciliazione fra russi e americani. Non solo i «miracoli» della produzione sovietica, malgrado le fanfaronate di Chruščëv, non hanno convinto quest’ultimi della «superiorità del sistema socialista sul sistema capitalista», ma il promotore della «emulazione pacifica fra sistemi diversi» ha dovuto riconoscere egli stesso la necessità per la Russia di mettersi alla scuola della tecnica dell’Occidente.

Con le parole d’ordine lanciate dall’economista Lieberman – produttività del lavoro, redditività delle imprese – cadono gli ultimi veli che nascondevano la realtà del capitalismo russo. In URSS la fase dell’accumulazione originaria del capitale è conclusa: la produzione russa si sforza di accedere al mercato mondiale e deve quindi piegarsi a tutte le sue esigenze. Il mercato è un luogo in cui si fronteggiano merci. Dire merce è dire profitto. Anche la produzione russa è produzione per il profitto. Ma questo termine deve essere preso nella sua accezione marxista – plusvalore destinato ad essere convertito in capitale – e non nella sua accezione volgare di «utile del padrone».

Sotto questo grossolano travestimento era facile agli staliniani negarne l’esistenza, poiché la proprietà privata dei mezzi di produzione, in Russia non esiste. Quanto ai loro avversari di sinistra, i quali sostengono che la forza lavoro russa è sfruttata, si rinchiudono, per la maggior parte, nello stesso criterio giuridico e puramente formale, invocando l’esistenza di una «burocrazia» che monopolizzerebbe arbitrariamente il prodotto nazionale.

Questa spiegazione non spiega nulla: la «burocrazia» è sempre più o meno apparsa in dati momenti della genesi o dell’evoluzione di tutti i grandi modi di produzione, ed è la natura di questi modi di produzione che ne determina i compiti e i privilegi, non questi che determina quella. Del resto, le strutture del capitalismo moderno tendono ad unificarsi, tanto nella loro «espressioni tradizionali» quanto in quelle russe. Quello di Europa e d’America si «burocratizza» nella misura in cui dissociatesi da tempo proprietà e gestione, la funzione dello Stato diviene determinante e genera tutta una mafia di «managers» e di affaristi che sono i veri padroni dell’economia. Quello in Russia, rinculando, si «liberalizza», cioè allenta il controllo statale della produzione, vanta le virtù della concorrenza, del commercio e della libera impresa – anche se questo processo non è rettilineo ma contraddittorio – per ragioni politiche e sociali che avremo certo occasione di esaminare in futuro.

Applicati alla storia economica dell’URSS i criteri enunciati dall’inizio di questa serie di articoli, permettono di ripercorrere la genesi del capitalismo russo. Salariato e accumulazione del capitale sono evidentemente incompatibili col socialismo. Imposti alla rivoluzione d’Ottobre dall’arretratezza economica del paese, essi lasciavano aperta la prospettiva di un socialismo futuro nella sola e stretta misura in cui il loro impiego si limita va alla soddisfazione delle esigenze della vita sociale in Russia e si subordinava rigorosa mente alla strategia di estensione internazionale della rivoluzione.

Abbandonata questa strategia, e la «coesistenza pacifica» traducendosi in lotta per il mercato mondiale, la Russia doveva proclamare alla luce del sole il primato nella sua economia delle categorie universali del capitalismo: concorrenza, profitto. Certo esse sono apparse senza l’esistenza di una classe borghese dirigente di cui la burocrazia assicura un interim d’altronde prossimo alla fine. Ma questa classe non può restare all’infinito sotterranea, nascosta, quasi clandestina, come è ancor oggi. Agiscono per suo conto tanto i commessi viaggiatori politici che concludono accordi commerciali nelle capitali estere, quanto i militari che riducono col terrore ogni velleità di emancipazione dei «partiti fratelli» dell’Europa centrale o dei Balcani. Sono allo stesso titolo strumenti della futura borghesia capitalistica russa i diplomatici che «aiutano» i Paesi arabi o il Nord Vietnam e i carri armati che fanno opera di polizia in Cecoslovacchia. Oppressore militare prima di essere concorrente «valido», arruolatore di manodopera forzata prima di estorcere plusvalore al modo raffinato dei suoi rivali d’occidente, il capitalismo russo ha percorso, in mezzo secolo di stalinismo, la via segnata di sangue, di violenza, di infamia, di corruzione che è la via maestra di ogni capitalismo.

L’insegnamento da trarne si può riassumere in poche frasi. La possibilità del socialismo in Russia era subordinata alla vittoria della rivoluzione comunista europea. L’impostura staliniana, contrabbandando i rapporti di produzione russi attuali come rapporti non capitalistici ha cancellato ogni distinzione, anche la più elementare, fra socialismo e capitalismo e distrutto la sola vera arma del proletariato: il suo programma di classe.

L’essenziale di questo programma è, sul piano politico, la dittatura del proletariato; sul piano economico, l’abolizione dello scambio mercantile fondato sullo sfruttamento della forza lavoro. Di queste due condizioni per il socialismo, la rivoluzione d’Ottobre ha realizzato soltanto la prima e senza poterla conservare per più di qualche anno, mentre non poteva – e i suoi capi lo sapevano – giungere alla seconda.

La dittatura del proletariato è morta nel corso della degenerazione del partito bolscevico. Questo, divenuto strumento dello Stato sovietico invece di esserne il padrone, ha reso impossibile sia la vittoria internazionale del proletariato, sia l’estinguersi dello Stato, punto fondamentale del marxismo. Mentre, sul piano sociale, la «Costituzione democratica del 1936» dava la supremazia all’immensa massa conservatrice del contadiname, sul piano economico l’URSS si sottometteva definitivamente alla legge del valore, al meccanismo di accumulazione del capitale le cui forze irresistibili dovevano senza l’aiuto della rivoluzione internazionale, riprodurre in Russia le stesse tare e le stesse mostruosità di ovunque.

Nel momento in cui l’inesorabile logica dei fatti svela anche agli occhi dei più increduli le sue infamie e le sue contraddizioni, la denuncia del falso socialismo russo è il primo pre supposto del ritorno del proletariato internazionale ai suoi obiettivi rivoluzionari e della riabilitazione, agli occhi degli sfruttati del mondo intero, dei principi fondamentali del comunismo.

Notes:
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  1. Questo testo è uscito come serie di articoli su «Il programma Comunista» nel 1970, distribuiti tra i numeri dal 13 al 19. I nove capitoli sono stati pubblicati in sette numeri della rivista. Il primo paragrafo di alcuni capitoli nel testo originale fa riferimento ai numeri precedenti o successivi del giornale. Dato che qui presentiamo il testo in modo continuo, abbiamo modificato questi riferimenti (per evitare che il lettore si confonda) e rimandiamo invece ai capitoli precedenti o successivi di questo testo.
    La parola «kolchoz» («Колхоз») è stata scritta in modi diversi nei vari capitoli. Qui scriviamo «colchos» invece di «colcos» o «cholchos» come compromesso. (sinistra.net)


Source: «Il Programma Comunista», № 13–19, luglio–novembre 1970

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